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8 Maggio 2024

Chi siamo

Il messaggio di Julia Ituma…

di Valeria Torri

L’ultimo messaggio di Julia Ituma – bye bye guys – è stato inviato dopo aver vagato per oltre un’ora, confusa e disperata, tra i corridoi dell’hotel di Istanbul prima di cadere dal sesto piano della sua camera, probabilmente, per togliersi la vita.

Le sue compagne di squadra, il team della pallavolo femminile di Novara, si sono dette ignare del dolore che affliggeva Julia. Non abbiamo capito – hanno detto – e così anche la presidente della squadra, Suor Giovanna Saporiti che ha fondato la società, ha ribadito che nulla aveva fatto pensare al dolore che si portava dentro la giovane pallavolista. Ora – ha proseguito – dobbiamo prestare attenzione alle altre ragazze e andare a fondo del loro stato d’animo, evidentemente, così complesso e imperscrutabile.

Quello di cui si deve parlare non è la morte di Julia che sgomenta per il dolore che deve aver provato, nel silenzio della sua giovane esistenza, una bambina appena divenuta ragazza, e neppure lo strazio di chi la ama e che ora fa fatica a realizzare che lei non c’è più. 

Dobbiamo parlare, invece, di noi stessi e della nostra incapacità di accettare che laddove noi vediamo solo la bellezza e la potenza possiamo invece trovare il dolore più profondo e addirittura la fine, a 18 anni. Un’età in cui ogni sensazione, ogni sentimento, ogni emozione si avvertono sulla pelle molto più intensamente di sempre.

I ragazzi, in questi ultimi anni, sono stati al centro dell’attenzione; a loro ci siamo riferiti come ad una generazione fragile sempre più bisognosa di aiuto: dall’anoressia delle giovani atlete della ginnastica artistica all’ansia degli universitari, per la paura dell’insuccesso, che ha portato a gesti sempre più disperati; al silenzio delle stanzette chiuse al mondo benché ormai libero dalla pandemia.

Lo dicono le neuropsichiatrie degli ospedali, al collasso, che riferiscono di tagli alle braccia, alle gambe, e della fame che vuole ferire il corpo, al solo fine di farsi del male.

Ciò che sempre più è al centro dell’attenzione è quel muro che all’improvviso tirano su i nostri ragazzi e ci impedisce di capirli, perché non sentiamo come loro e non reagiamo come loro. 

Se ne è parlato come facendo riferimento ad un fenomeno peculiare di una società lontana dai drammi veri, quelli dell’epoca della guerra, della ricostruzione o degli stravolgimenti sociali post ‘68. In un’epoca, la nostra, sazia e appagata dalla disponibilità di ogni genere di bene, si parla dei giovani come rappresentassero una stortura del sistema, come se il lato fragile dell’animo non fosse parte di quella stessa forza che li caratterizza e che li spinge a balzi incredibilmente agili e veloci verso il futuro. 

Dovremmo invece parlare di noi, che li teniamo al sicuro, protetti e sorvegliati finché sono bambini ma poi, quando non lo sono più, siamo costretti ad affidarci al fato o al Signore che tutto vada bene, rassicurati come siamo dalle loro braccia e gambe forti, dalla loro capacità da supereroi di cadere e rialzarsi, dalla consapevolezza che dovranno trovare da soli il modo per cavarsi dalle difficoltà perché solo così potranno diventare donne e uomini.

Secondo il noto Filosofo Galimberti il compito dei genitori è quello di descrivere esattamente il mondo come è, al di là di vane speranze e di una descrizione ottimistica che non corrisponde minimamente alla realtà. Quando gli è stato chiesto quale fosse il consiglio migliore che si sentiva di dare alle mamme e ai papà, ha risposto: “Ai genitori direi: senti, non chiedermi aiuto, perché se me lo chiedi hai già sbagliato. Con tuo figlio dovevi parlare dai 2 ai 12 anni, quello è il tempo per parlare con loro.”

Bisogna parlare di noi adulti, dunque, e non dei ragazzi, per aiutarci a stare svegli, anche quando gli abbiamo lasciato la mano per restare silenziosi dietro ai loro passi, in caso abbiano bisogno di voltarsi a chiederci perché non vedono la strada.

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