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2 Maggio 2024

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La relazione tra la crisi energetica, l’opportunità dello smart working e il fenomeno dei quitfluencer

di Valeria Torri

Vengono chiamate “quitfluencer” le persone che, nell’era post pandemica, si dimettono dal proprio lavoro.

Il fenomeno, detto anche delle “Grandi Dimissioni”, più diffuso nelle nuove generazioni, trova le sue ragioni anche nel contagio, stavolta, non causato dal virsus da Covid-19 bensì dall’ “effetto domino”. 

Secondo studi accreditati, chi mostra di lasciare il lavoro, all’interno di un contesto lavorativo o sui social, contagia chi gli sta intorno.

L’hashtag #quityourjob su TikTok raggiunge 176 milioni di visualizzazioni con i video di chi racconta del cambiamento in positivo della propria vita dopo aver avuto il coraggio di cambiare lavoro.  

Se ne parla ampiamente: il clima e i valori presenti in azienda sono i principali imputati da parte dei quitfluencer. Si tratta di oltre un quarto (27%) di dipendenti, persone “in movimento” verso una vita lavorativa più rispettosa delle nuove esigenze personali e professionali, alla ricerca di un maggior equilibrio tra lavoro e vita privata.

In Italia, solo nel 2021, secondo i dati del Ministero del Lavoro, si sono contati 2 milioni di abbandoni volontari da parte dei dipendenti, un +33% rispetto al 2020. La fuga dal lavoro tradizionale in ufficio era stata la diretta conseguenza dello sconvolgimento della pandemia da Covid e dello smart working che, improvvisamente, era diventata l’unica modalità lavorativa possibile durante i lockdown che avevano svuotato gli uffici e la speranza di nuovo modo di conciliare vita e lavoro. E quando le cose sono tornate un po’ alla normalità, in molti hanno deciso che le 8 ore in un ufficio e il quotidiano e monotono viaggio casa-lavoro, non erano più accettabili. Così, in molti, moltissimi, davanti al rifiuto da parte dell’azienda di mantenere il lavoro in remoto anche a emergenza finita, hanno preferito licenziarsi. Una tendenza destinata a crescere nel 2022, come anticipato da tutti i più importanti studi in materia, che la crisi energetica sta velocemente invertendo.

Perché lavorare da casa significa tenere accesi luci e pc tutto il giorno, per non parlare del riscaldamento. Spese che quando si va in ufficio ricadono tutte sul datore del lavoro e che, soprattutto in presenza di stipendi bassi, possono fare la differenza nel bilancio familiare. L’aumento dei costi di queste voci ora rischia di intaccare pesantemente i risparmi derivati dal lavoro agile e che uno studio condotto dal Codacons e pubblicato nel febbraio scorso quantificava per le tasche dei lavoratori tra i 2.845 euro e i 5.115 euro all’anno (ai quali si devono aggiungere i 7 giorni totali risparmiati per gli spostamenti casa-lavoro e le minori emissioni di Co2).

Di converso, alle aziende far lavorare a casa il dipendente conviene. Secondo un report del Politecnico di Milano, un’azienda che tiene a casa i propri dipendenti risparmia nell’immediato circa il 30% tra spese di affitti, utenze e buoni pasto. Risparmio che, sempre secondo il Politecnico, può essere quantificato “tra i 4 mila euro e i 6 mila euro a dipendente, rispettivamente per 6 e 9 giorni di smart working al mese. E il risparmio sale fino a 10 mila euro all’anno per ogni dipendente che lavora esclusivamente in modalità agile”.

Sono problemi che vanno compresi e affrontati perché quella della costruzione del futuro del lavoro è una sfida che si vince o si perde tutti.

In questo contesto, i sindacati possono farsi parte propositiva nella promozione e progettazione di nuovi modelli organizzativi, all’interno delle aziende pubbliche come di quelle private, così come nella revisione di una normativa che non si confà all’evoluzione del mercato del lavoro verso modelli più sostenibili.

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