Il 7 ottobre fu una ferita nel cuore dell’umanità.
Un massacro terroristico contro civili innocenti: donne, bambini, anziani.
Fu l’odio che si fece carne, il male che si mostrò senza maschera.
Israele aveva il diritto — e il dovere — di difendersi.
Ma la difesa non può diventare sterminio, e la giustizia non può trasformarsi in vendetta.
Da allora, il mondo ha assistito a una tragedia che ha travolto ogni limite.
Gaza è stata devastata, intere famiglie cancellate, una popolazione civile schiacciata tra le bombe e la fame.
Non è più guerra: è una punizione collettiva, che molti giuristi e istituzioni internazionali chiamano ormai genocidio.
Il silenzio, in parte, è stato rotto.
Voci si sono levate — nelle piazze, nelle università, nei parlamenti, nei tribunali internazionali.
Ma la loro forza non ha fermato le armi.
La reazione morale del mondo è stata impotente, incapace di tradursi in azione, di imporre limiti, di salvare vite.
E così, il silenzio ha cambiato forma: non più assenza di parole, ma assenza di efficacia.
Un silenzio che si misura non nel tacere, ma nel non riuscire a fermare l’orrore.
Le istituzioni internazionali hanno parlato chiaro: la sproporzione è inaccettabile, il diritto è stato oltrepassato, la sofferenza dei civili non è più tollerabile.
Eppure la politica esita, l’Occidente chiude gli occhi, molti media ancora cercano equilibrio dove non c’è più simmetria.
La prudenza davanti all’ingiustizia è viltà.
Il silenzio, oggi, non è neutralità: è colpa.
È una forma di consenso mascherato, un modo per lavarsi la coscienza mentre un popolo viene annientato.
La storia giudicherà non solo chi ha bombardato, ma anche chi ha taciuto, chi ha esitato, chi non ha avuto il coraggio di fermare la mano del carnefice.
Il 7 ottobre ci ha mostrato la crudeltà dell’odio.
Tutto ciò che è seguito ci mostra la colpa del silenzio, dell’impotenza.
E oggi, più che mai, tacere — o non agire — è tradire l’umanità stessa.
.
.




