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19 Aprile 2024

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Una goccia in un oceano di solidarietà. Parla Fabrizio e racconta la sua storia

 

di Valeria Torri

Tra il dire e il fare c’è di mezzo un minivan e due anime nobili. Breve racconto di uno tra i tanti silenziosi gesti di generosità in aiuto alle popolazioni ucraine. 

Fabrizio, 45 anni abruzzese di nascita, vive a Roma con sua moglie, salernitana, e i loro due bambini di 11 e 8 anni. Sono una famiglia non comune, di quelle aperte ai cambiamenti, per amore del lavoro, dell’impegno e della crescita personale. Lui, ricercatore, lei, magistrato, stanno traslocando per la terza volta in 6 anni. In procinto di prendere possesso nella nuova casa, forse, in un momento di vita particolarmente positivo, sentono di non poter ignorare la tragedia che si sta consumando in Ucraina. Quell’emergenza umanitaria, per loro, non può essere ignorata. Al confine ucraino-polacco arrivano continuamente profughi stremati, dal freddo, dal viaggio e dalla certezza di aver perso tutto. C’è un rifugio a Cracovia di mamme e bambini che chiedono acqua, cibo in scatola e insulina. Un contatto di Fabrizio sul posto gli scrive: “Avete modo di dargli una mano portando su qualcosa?”. Lui non ci pensa due volte e, con un amico, organizza una raccolta di beni di prima necessità. Con il cibo e i medicinali che riescono a reperire, prendono un minivan e partono per la Polonia.

Fabrizio mi ha raccontato la sua esperienza.

Fabrizio, si parla di oltre due milioni di profughi. Di questi, si legge, circa un milione sarebbero bambini. E’ questo che ti ha dato la spinta ad andare sul posto a dare materialmente il vostro aiuto? 

E’ stata una breve partentesi della nostra vita, una mini-missione umanitaria di volontariato fai da te”. Noi, io e il mio amico, come la maggior parte della gente del mondo occidentale, siamo rimasti scioccati dallo scoppio della guerra in luogo a noi vicino, culturalmente e geograficamente, e forse ha giocato un ruolo anche il fatto che la comunità ucraina a Roma, ma in generale in Italia, è una comunità molto diffusa, molto apprezzata e certamente a noi vicina. In un modo o nell’altro, abbiamo tutti avuto contatto con lavoratori ucraini, ne conosciamo le qualità, l’onestà e la serietà. Abbiamo deciso di prendere parte attiva in ciò che sta accadendo perché non sopportavamo il ruolo di spettatore impotente. 

Com’è nata l’idea di partire?

Il mio amico ha un minivan da 9 posti. Una sera mi ha chiamato dicendomi che non potevamo starcene con le mani in mano e che, avendo a disposizione questo mezzo, avremmo potuto trasportare qualcosa. Abbiamo scaricato dal sito del Parlamento europeo la lista di beni di prima necessità che venivano richiesti dalle autorità ucraine. Abbiamo fatto una piccola colletta di cose, cibo e medicine, sufficienti a riempire lo spazio utile del nostro mezzo di trasporto con l’intenzione di trasportare questi beni al confine, consegnarli alla piccola associazione ucraina con cui avevamo un contatto diretto e che si sarebbe occupata di portare i viveri e i medicinali in Ucraina. Con un po’ di fortuna, al ritorno, avremmo potuto offrire un passaggio a qualcuno che volesse venir via con noi.

Avevate piena contezza dei rischi che correvate?

Il mio amico era al corrente della realtà del passaggio dei rifugiati che, a piedi, attraversano il confine tra l’Ucraina e la Polonia. Noi siamo andati in un posto coperto mediaticamente, quindi avevamo la serenità di non avventurarci in un luogo sconosciuto. Sapevamo che lì c’ erano dei giornalisti che conoscevamo, quindi sapevamo che si trattava di un posto sicuro al di qua del confine in Unione Europa, un paese Nato, quindi… Detto ciò, la sensazione che abbiamo avuto, una volta arrivati lì, è stata surreale. L’atmosfera nella quale ci siamo imbattuti era di calma, tranquillità. Il confine, di fatto, stabiliva una netta separazione tra la vita che va avanti nel pieno della normalità e la tragedia che si consuma nella sua forma più cruenta. 

Quanto è durato il viaggio?

Il viaggio è durato circa 4 giorni. Siamo partiti da Roma il mercoledì alle 6 del mattino, siamo arrivati al confine tra la Repubblica Ceca e la Polonia in piena notte, alle 2. Siamo ripartiti il giovedì mattina alle 8 e nel pomeriggio abbiamo raggiunto il confine tra la Polonia e l’Ucraina, dove abbiamo scaricato le scatole di viveri e medicinali che avevamo portato dall’Italia. Siamo entrati in uno dei centri per i rifugiati al confine intorno alle 19. Lì abbiamo incontrato alcune persone alle quali ci siamo presentati, dicendo chi eravamo, da dove venivamo e che eravamo intenzionati a “dare un passaggio” a chi volesse venire in Italia, spiegando che avremmo potuto offrire ospitalità al loro arrivo. Abbiamo cercato di dare ogni informazione: come si sarebbe svolto il viaggio, e così via. Verso le 23 avevamo trovato le persone che sarebbero partite con noi. Il venerdì mattina, alle 9, siamo ripartiti dalla colonia insieme a loro. Abbiamo fatto sosta a Trieste per la notte, ospitati da famiglie di volontari che hanno messo a disposizione una casa per ciascuna coppia di rifugiati, e siamo ripartiti per Roma dove siamo arrivati attorno alle 17 del sabato. 

Quante persone avete portato con voi in Italia e chi sono?

La prima cosa che ci siamo chiesti è stata: cosa avremmo potuto offrire alle persone che avremmo riportato indietro. In termini di aiuto, che non fosse limitato al semplice passaggio. Abbiamo così trovato un istituto religioso a Roma disposto ad ospitare 7 persone. Inizialmente ci siamo detti che avremmo potuto agevolare chi cercasse un ricongiungimento familiare in Italia. Ma questa idea poi non si è concretizzata perché avevamo saputo dai nostri contatti ucraini che il ricongiungimento, per molti, era già avvenuto. Quindi abbiamo offerto un passaggio a 3 mamme e ai loro figli, tra gli 11 e i 15 anni, oltre alla sorella di una delle donne. 

Durante il viaggio di rientro avete potuto parlare? Vi siete conosciuti?

Non abbiamo avuto modo di parlare per la barriera linguistica, perché loro non parlavano che ucraino. Ci ha aiutati un mediatore culturale e linguistico tra i volontari del centro dei rifugiati al quale ci siamo rivolti e che ci ha presentato queste persone. La necessità di rispettare la loro tragedia ci avrebbe comunque impedito di indagare sulle loro vite. Semplicemente abbiamo offerto quello che abbiamo potuto. Il lavoro più difficile è stato quello di tranquillizzarle sul nostro intento. Insomma, fare capire che non eravamo trafficanti di essere umani o approfittatori.

Quale genere di organizzazione c’è nei centri di accoglienza per i profughi?

Quando siamo arrivati, ci siamo trovati in una situazione che non ci aspettavamo, e cioè di incredibile organizzazione da parte delle associazioni internazionali per gli aiuti umanitari, anche in termini di trasporti verso le più grandi capitali europee. Migliaia di persone erano già partite. Quelle rimaste nei centri di accoglienza, invece, non hanno ancora idea di una possibile destinazione. Ciò che abbiamo offerto noi era una sicura collocazione al termine del viaggio, un posto dove andare. Non l’ignoto o un centro d’accoglienza sconosciuto. Forse anche il fatto che l’alloggio fosse offerto dalle suore ha potuto dare la sensazione di sicurezza, ed in effetti è stato così. La possibilità di essere accolti in maniera umana e caritatevole ha convinto quelle madri a partire con noi. 

Fabrizio, come ha reagito la tua famiglia alla notizia della tua intenzione di partire per portare aiuti umanitari al confine con l’Ucraina?

Mia moglie e miei figli mi hanno mostrato totale supporto perché credevano in quello che insieme volevamo fare. Certamente, un minivan da 9 posti per portare indietro altrettante persone rappresenta una goccia nell’oceano, ma testimonia un gesto di solidarietà, in termini di presenza tangibile. Questo mi è stato chiaro ancor di più dopo. Voglio dire, questi gesti di presenza personale hanno una valenza forte per chi li riceve, che va al di là dell’aiuto materiale, perché le persone che superano il confine ucraino vengono da un trauma indescrivibile, perciò trovare un aiuto in più, anche piccolo, non è indifferente. Alle persone che abbiamo portato con noi non so quale destino fosse riservato, se non avessero avuto il nostro gancio. Ma anche se fossimo tornati indietro con il mezzo vuoto, il nostro viaggio avrebbe avuto lo stesso valore.

Hai mantenuto un contatto con le persone che avete accompagnato in Italia?

Sono andato a trovarle due giorni dopo il rientro. Le ho messe in contatto con persone ucraine che conosco e che le avrebbero aiutate ad integrarsi più velocemente, anche semplicemente per fare i documenti piuttosto che per rispondere alle loro prime domande su come funziona il nostro paese. Le ho trovate fortunatamente riposate, quasi di buon umore. Avevano dormito per la prima volta in un letto dopo tante notti su delle brande, in un centro commerciale e alla fine di un viaggio attraverso l’Europa, con niente altro che due buste e un trolley pieni del resto delle loro vite. 

Qual è la tua opinione circa le scelte politiche dell’Italia e dell’Unione Europea sulla vicenda della guerra russo-ucraina.

Le scelte politiche dell’Italia non sono indipendenti dalle scelte degli altri membri Nato e dell’Unione Europea. Dal punto di vista dell’accoglienza, oggi le scuole italiane sono aperte a tutti i bambini ucraini che arrivano; la città di Roma ha un centro di vaccinazione e di tamponi gratuiti per loro. Io penso che, in questa vicenda, la gran parte degli italiani stia dando una buona prova di sé, sotto tanti aspetti.

Cosa consiglieresti a chi volesse fare un gesto di solidarietà alle popolazioni colpite dalla guerra, come hai fatto tu?

Ho postato un breve resoconto della nostra storia su Twitter e sono stato contattato da alcune persone che volevano fare una cosa simile alla nostra e che cercavano consigli sul viaggio e sul pernottamento. Quello che farei diversamente, col senno di poi, è contattare qualche grande organizzazione che si sta impegnando negli aiuti all’Ucraina, come ad esempio la Protezione Civile, che, peraltro, si sta occupando di gestire i transiti verso l’Italia, cosa che non sapevamo e che magari ci avrebbe consentito di trovare più facilmente persone da aiutare. Il posto dove siamo andati è raggiunto da aiuti umanitari. Ci sono molte altre zone, al confine con l’Ucraina, che non lo sono e che non sono state raggiunte dai media occidentali. Lì si può fare di più. C’è una fitta rete di persone che è impegnata in questo. Su Facebook ci sono tanti volontari che chiedono aiuto dalla Polonia. E’ così che abbiamo conosciuto una volontaria che lavora in un centro di accoglienza a Cracovia. Con un minimo di ricerca anche sui social si trovano tantissime occasioni per offrire aiuto.

Cosa porti con te di questa esperienza?

Al di qua di quel confine c’è un continente che offre sicurezza e la possibilità di una vita libera. Noi diamo per scontata la nostra realtà perché abbiamo il lusso di viverci. Questo viaggio mi aperto gli occhi proprio sul privilegio di poter vivere in Europa. Non ce ne rendiamo conto davvero finché non arriva una guerra a farcelo capire.

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