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La mia idea di Recovery Fund

di John Maynard Keynes

Non sono un profeta, non sono un messia, non sono un eretico.

Sono uno studioso e mi piacerebbe che venissi definito così e giudicato per quello che ho fatto.

Una volta, Marx assistette ad un esperimento – quello che pretendeva essere un esperimento – di socialismo realizzato, di marxismo e disse “se questo è il marxismo, io non sono marxista!”.

Non dovevano averlo convinto.

È successo anche a me molte volte: quando vedo spropositati aumenti di spesa, fondi perduti e mai più ritrovati, valanghe di danari nelle pensioni e nell’assistenzialismo spacciati come teorie keynesiane dico “spiacenti, se queste sono le teorie keynesiane, io non sono keynesiano”.

Mi innervosisco, devo ammetterlo; perché dopo aver scritto un mattone enorme e sagacemente organizzato – La Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta – noto, con rammarico, che quelli che dicono di avermi letto, in realtà non l’hanno fatto e quelli che dicono di avermi capito, non distinguerebbero, probabilmente, un pallone da calcio da una palla da bowling.

Ergo, devo spiegarmi ancora. E lo farò parlando di cosa avrei fatto io se mi avessero chiamato a scrivere questo benedetto recovery plan, di cui tanto parlate.

Da liberale convinto quale sono, credo che la libertà economica vada tutelata; se c’è gente in difficoltà non la stiamo tutelando, se stringiamo troppo la cinghia in nome del risparmio e dello stato minimo non la stiamo tutelando. La tuteliamo se ci occupiamo, e bene, dell’altra faccia della medaglia della libertà economica: la giustizia sociale.

Cosa avrei fatto? Tre cose: investimenti, investimenti, investimenti.

In cosa avrei investito? Essenzialmente, in tre ambiti: infrastrutture, formazione e transizioni.

Siamo un Paese carente in infrastrutture: strade, ponti, ferrovie, aeroporti non sono all’altezza; il trasporto pubblico locale è un macello, utile solo a dare posto a qualche baldo giovane che ha ansia di sedere, lautamente pagato, nel cda di una partecipata di quart’ordine.

Avrei investito, e tanto, in formazione: in ricerca e sviluppo per le imprese private, in corsi di aggiornamento e di formazione continua per tutti i lavoratori, nell’istruzione, nell’università e nella cultura.

Per utilizzare un termine dei vostri tempi, nel capitale umano, che è fragile e poco competitivo.

Un Paese come l’Italia, con la sua storia e la sua millenaria tradizione culturale, non può avere un numero irrisori di laureati.

E poi, avrei investito per le due grandi transizioni: la green, che ci costerà tanto, ma tanto, ma tanto, e nel digitale, che però permetterà alla nostra giustizia ed alla nostra burocrazia di funzionare meglio.

Tutto ciò, è indispensabile per il nostro “sistema Paese”.

Chiudo con una innovazione tecnica che decisi di lanciare novant’anni fa: il moltiplicatore economico. Sono certo, arciconvinto, sicurissimo che ogni euro speso per queste voci ci frutterà, nel tempo, ben di più di quanto abbiamo speso.

È una sfida, una scommessa. Ma non possiamo fare a meno di giocarcela.

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