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Perché sono contrario alla tirannia dell’unanimità

di Alexis de Tocqueville

Quando, dopo la rivoluzione del 1830 che portò al potere Luigi Filippo d’Orleans, il Principe borghese, decisi di partire per gli Stati Uniti, in molti dissero che la mia era una fuga in piena regola e non, come avevo detto, un viaggio di studio.

Sbagliavano. Qualche anno dopo scrissi un’opera che, mi perdonerete l’arroganza, è uno dei capisaldi del pensiero liberale occidentale: La democrazia in America, in cui segnalavo come quella americana fosse stata una rivoluzione positiva, perché aveva messo al centro la libertà, mentre quella francese aveva provocato solo uno stato di terrore e di violenza civile.

Tra le altre cose, insistetti su un punto che ritenevo particolarmente meritevole d’attenzione: la tirannia della maggioranza; l’idea, cioè, che l’ordinamento americano fosse dotato di quegli strumenti – i cosiddetti checks and balances – che imponevano al potere politico di dover sempre fare i conti con l’arte del compromesso e della mediazione, nel pieno rispetto dei diritti delle minoranze.

Guardando al mondo contemporaneo, un pensiero mi passa per la testa: mai avrei pensato di dover mettere in guardia cittadini e classi dirigenti rispetto alla tirannia dell’unanimità.

Ed invece, osservando l’ordinamento europeo penso proprio di doverlo fare. 

Le decisioni prese all’unanimità – tante, in materia di immigrazione e di bilancio federale, per citarne due – sono l’esatto opposto della democrazia; sono la possibilità per pochi – talvolta un solo Paese – di bloccare ciò che altri ventisei approverebbero senza remore; sono un incentivo ad incaponirsi su posizioni estreme e radicali, invece di ricercare un medio in cui stat virtus.

Le peripezie per l’approvazione dell’ultimo bilancio europeo sono indicative: in piena pandemia, nella sua duplice forma di crisi sanitaria e collasso economico, due Paesi, Ungheria e Polonia – ma avrebbe potuto essere chiunque – hanno dato vita ad uno “scabroso” braccio di ferro contro la Commissione, rea di aver sollevato questioni rispetto alle condizioni di salute dei due rispettivi stati di diritto. 

Magistratura meno indipendente, violazioni alle libertà di stampa e di pensiero, attacchi ai diritti delle minoranze: di argomenti a loro sfavore ce n’erano e ce n’erano anche tanti e solidi.

Dunque, do ut des, sempre perché i latini insegnano: io do una cosa a te e tu dai una cosa a me. Io – Polonia e Ungheria – accetto le tue proposte di bilancio se tu, Commissione, smetti di farmi le pulci.

E così sia, in nome della reciproca convenienza.

Eppure, così non va; primo, perché sui diritti non si transige, non si scende a patti, non si fanno compromessi; e poi, perché, come dicevo, lungi dall’essere democrazia, questa tirannia dell’unanimità è esattamente l’opposto.

L’Unione Europea è in mezzo al guado: o si rafforza o rischia di rimanere un’incompiuta, che ci ha garantito settant’anni di pace ma che non è riuscita a fornirci quel quid in più per farci vivere nel benessere.

Per non rimanere un’incompiuta deve partire da qui, dall’essere davvero democratica. 

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